Nulla di nuovo, quindi, nel panorama geo-politico dopo l’esito delle elezioni di sabato a Taiwan. O meglio, sarebbe più opportuno dire che la vittoria del partito che già era al Governo sull’isola (il Dpp, Democratic Progressive Party), anche se con una percentuale di voti (poco più del 40%), piuttosto inferiore alle elezioni del 2020, quando ottenne la maggioranza assoluta, conferma il processo identitario in corso sull’isola, con la maggioranza della popolazione che vedrebbe di buon grado un’indipendenza sempre maggiore dal “dragone” cinese. Che, infatti, ha già fatto sentire la sua voce, con il proprio Ministro degli Esteri che ha dichiarato, durante il viaggio in corso in Egitto, che (Taiwan) “non sono mai stati un Paese né mai lo saranno”. A cui fa fronte, come da routine, l’Amministrazione americana, che, al di là delle congratulazioni di rito al vincitore (non si sa se sarebbe stata la stessa cosa nel caso avesse vinto il candidato “pro-Cina”), ha inviato una delegazione con l’obiettivo evidente di esprimere il proprio sostegno politico al vincitore.
Taiwan (l’ex Formosa) ha più o meno le dimensioni della Sicilia, con la differenza, però, di essere abitata da quasi 24 ML di abitanti. La grande valenza dell’isola, al di là della prossimità alla Cina, è essere leader mondiale nella produzione di semiconduttori avanzati, concentrando circa l’80% della produzione globale. Da qui la sua rilevanza strategica: il mondo, di fatto, non può fare a meno, oggi, della produzione proveniente da quel Paese. Un po’ come l’Europa (anzi, ancor di più) rispetto alla Russia per quanto riguarda, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, i prodotti energetici. Con la differenza che, nel caso di Taiwan, a dipendere non è solo un’area specifica, ma tutto il mondo. Un dato può far meglio comprendere la portata: la capitalizzazione dei 20 maggiori clienti della Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSM), leader mondiale del settore, vale circa $ 7.400 MD. E il 5,6% del valore aggiunto totale (circa $ 6.000 MD) deriva da settori incentrati sui microchip.
Bloomberg Economics ha reso noto uno studio (non si sa da quanto tempo chiuso in un cassetto) in base al quale si calcola che il costo di un’eventuale guerra, in conseguenza dell’invasione dell’isola da parte delle truppe cinesi, avrebbe un costo, in termini di impatto sul PIL mondiale, non inferiore al 10,2%: in “soldoni”, circa $ 10.000 MD. Numeri che farebbero impallidire la crisi del 2008, per non parlare della guerra in Ucraina e della pandemia.
Taiwan vedrebbe distrutto oltre il 40% del proprio PIL. Ma anche la Cina se la passerebbe piuttosto male, con una caduta del 16,7%: percentuale mostruosa per quella che ormai è la seconda economia al mondo. Gli Stati Uniti vedrebbero la propria economia arretrare del 6,7%, grazie ad una minor “dipendenza” dalle forniture provenienti da quella zona. Ma danni ben più gravi li soffrirebbe Paesi come la Corea del Sud, il Giappone, l’India, e tanti altri Paesi asiatici. Un po’ meglio andrebbe se , anziché di un conflitto, si parlasse di un “assedio”, che, comunque, avrebbe conseguenze sempre gravi, ma meno catastrofiche: in questo caso, secondo Bloomberg, l’impatto porterebbe ad una caduta del PIL dell’isola del 12,2% e del 5% del PIL mondiale, passando attraverso il – 8,9% della Cina, al – 3,3% degli Usa, etc.
Proprio la straordinaria valenza economica dell’isola, peraltro, potrebbe essere il vero “paracadute” avverso un’eventuale escalation militare o, per lo meno, politica tra i “contendenti”: in sostanza, non ci sarebbe un “vincitore” ma tanti “lose”. Di fatto un conflitto, a tutti gli effetti, “lose lose”, in cui a rimetterci sarebbero tutti. Il che non significa che la tensione tra Usa e Cina non possa crescere, ma che, probabilmente, più che Taiwan potrebbe riguardare altre questioni, lasciando la minaccia sullo sfondo.
Che il mondo, questa mattina, si sia svegliato come si era chiusa la settimana scorsa lo conferma l’andamento dei mercati del Pacifico, sostanzialmente positivi.
A Tokyo il Nikkei inizia la settimana con un + 0,91% che lo avvicina una volta di più ai massimi storici della fine della seconda metà degli anni 80.
Shanghai è in progresso dello 0,15%, mentre soffre un pochino, a Hong Kong, l’Hang Seng, che retrocede dello 0,54%.
La borsa di Taipei sale dello 0,3%, così come il Sensex di Mumbai.
Ovunque positivi i futures, con rialzi tra lo 0,10 e lo 0,30%.
Si stabilizzano le quotazioni del petrolio, dopo l’impennata dei giorni scorsi in conseguenza degli attacchi americani ai guerriglieri Houthi nello Yemen. Questa mattina troviamo il WTI a $ 72,74, sullo stesso livello di venerdì scorso.
Gas naturale Usa a $ 3,166 (- 4,62”%).
Oro a $ 2.060, in rialzo dello 0,31%.
Spread a 157,5 bp, con il BTP al 3,72%.
Bund tedesco sempre a 2,18%.
Treasury Usa a 3,93%, con il differenziale tra decennale e biennale ormai ridotto allo 0,20% (biennale 4,14%).
€/$ 1,096.
Week end di passione per il bitcoin, tornato, dopo l’approvazione della SEC americana dei nuovi ETF che possono investire sulla criptovaluta, sotto i $ 43.000 (42.630), dopo aver toccato, giovedì (anche se solo per un attimo), i $ 49.000.
Ps: iniziamo la settimana con una buona notizia. Sono passati 15 anni da uno degli episodi più incredibili nella storia dell’aviazione: l’atterraggio di un aereo di linea sul fiume Hudson, nel centro di New York, dopo che entrambi i motori erano stati messi fuori uso da uno stormo di oche in fase di decollo. Un volo con 155 passeggeri, oltre ai membri dell’equipaggio, con soltanto qualche ferito lieve. Tanto incredibile da esserne stato tratto un film (Sully, dal nome del comandante, Chesley “Sully” Sullenberger, assurto, direi giustamente, ad eroe nazionale).